Piccolo segno della grande SPERANZA per la BOSNIA ERZEGOVINA
di Mons. Don Pero Sudar, Vescovo Ausiliare di Sarajevo 

Quadro politico   La Bosnia ed Erzegovina (BeE) è un piccolo Paese (51.129 kmq) nel Sud dell’Europa centrale. A causa della sua posizione geografica e della sua secolare storia travagliata, la BeE è divenuta regione d’incontro per diversi popoli, culture e religioni ma, non di rado, anche di scontro.Con l’ultima guerra (1992-1995) sono state portate al culmine vecchie tensioni politiche ed attuati progetti criminali. Per “giustificare” la morte di ca. 278.800 persone, per la maggior parte civili, e la cacciata dal paese di quasi un terzo della popolazione (1.250.000), la propaganda si è servita della teoria dell’intolleranza etnica. Il peso delle ingiustizie storiche, delle false ideologie e dei crimini ultimamente commessi ha minacciato di far crollare del tutto la convivenza creatasi lungo i secoli. Sul fuoco dell’intolleranza hanno cominciato a soffiare quasi tutti. Furono proposte la separazione etnica totale e la spartizione definitiva del Paese come unico mezzo per fermare la guerra omicida. L’inaudita brutalità e la cosiddetta pulizia etnica miravano a convincere tutti dell’inevitabilità della divisione etnica. I promotori e sostenitori di questa soluzione hanno chiuso gli occhi davanti all’impossibilità di separare gente mescolata nel corso dei secoli, di spartire la loro patria senza calpestare tutti i diritti umani e senza trasgredire tutti i comandamenti di Dio.Sebbene ridotta a dover lottare per la propria sopravvivenza, la Chiesa cattolica – ispirata ed incoraggiata dalle parole e dai gesti del Papa – ha cercato di levare la propria voce per la pace, che in questo Paese passa necessariamente attraverso la convivenza pacifica tra i diversi. La Chiesa, cosciente che le sole denuncie non sono sufficienti, tramite le sue istituzioni umanitarie (posti di accoglienza, Caritas, ambulatori, farmacie, cucine popolari…) ha cercato di distribuire gli aiuti ricevuti dalle Chiese sorelle ai bisognosi, senza chiedere a quale nazione o religione appartenessero. Per dare prova che, malgrado quello che gli uomini avevano subito durante la guerra, la pace era ancora possibile, bisognava mostrare che la disponibilità della gente alla convivenza non era andata perduta del tutto.   

 

 

 

 

 

Il perché delle scuole interetniche e interreligiose

Non soltanto per gli obiettivi, ma anche per le modalità con cui è stata condotta, la guerra in BeE ha mostrato il volto peggiore della “generazione moderna”, cresciuta ed educata in un ambiente “liberato dai pregiudizi” dei valori umani e morali. Essa è stata capace di eseguire comandi – ovviamente amorali – senza scrupoli. Ancora una volta l’essere umano, privo della sua identità, si è dimostrato disposto a tutto. La stessa gente che solo qualche anno prima, su indicazione dei capi del partito comunista, piena di entusiasmo inneggiava alla fraternità ed unità tra i vari popoli, seguendo le direttive di quegli stessi capi, compiva massacri in nome dell’etnia e della nazionalità. Quanti non erano disposti a prendere parte o ad appoggiare questo “processo storico” furono trattati come traditori del proprio popolo. A chiunque fosse stato disposto a vedere oltre la cortina della propaganda si rivelarono, prima di tutto, le conseguenze del vuoto pedagogico e del vuoto dei valori.

Le lavagne delle scuole distrutte o chiuse per la sicurezza degli alunni, su cui per cinquant’anni non erano più stati scritti principi e valori, sono state sostituite dai muri delle case e degli edifici bombardati, su cui venivano diffusi i messaggi: Mai più insieme! Dio perdona, ma noi no! Per voi non ci sarà mai più un futuro sicuro! Questa spaventosa diffusione dell’odio, da cui non era protetta nemmeno la giovanissima generazione nelle scuole, ha costituito la parte più pericolosa della guerra! Anche dopo la guerra gli esperti stranieri, che avevano visitato le scuole e visto i libri di testo in BeE, hanno sostenuto che si trattava di vere e proprie scuole dell’odio. Le scuole erano diventate i luoghi della discriminazione più pericolosa, perché praticata nei confronti dei bambini. Molti alunni furono derisi e non di rado fisicamente maltrattati dai loro coetanei appartenenti alla maggioranza, e si sentivano non accolti anche dagli insegnanti. Gli stessi libri da cui dovevano imparare li offendevano, perché in essi tutte le colpe erano addossate al loro popolo. I promotori e sostenitori della separazione etnica sapevano bene che questo fatto sarebbe stato il motivo decisivo per i genitori delle minoranze per andarsene via, realizzando così il piano della pulizia etnica. D’altra parte, con questa pratica gli amari frutti della guerra sarebbero sopravissuti a lungo nei cuori della gente e le linee della separazione sarebbero state definitivamente cementate. Si è dimenticato che la società che semina la zizzania dell’odio nel fertile terreno della giovane generazione non può sperare di mietere la pace e la prosperità.

Accorgendosi dei pericoli che correva il Paese, la Chiesa della diocesi di Vrhbosna-Sarajevo ha deciso di aprire una piccola scuola per i bambini cattolici, per stimolare i loro genitori a rimanere a Sarajevo. Inoltre, si sperava che ci potessero essere anche dei genitori non cattolici ad avere i loro motivi e soprattutto il coraggio di mandare i loro figli in una scuola che voleva essere un segno e un modello di convivenza e un laboratorio della pace. Così abbiamo deciso di dare i pochi posti della scuola di Sarajevo ai primi alunni che lo avessero chiesto, senza fare distinzione di etnia o di religione. In tal modo speravamo che la scuola cattolica potesse diventare una testimonianza efficace che la gente non rifiutava del tutto di continuare a vivere insieme. Questa speranza era strettamente connessa al rischio del fallimento, che avrebbe mostrato ancor di più l’incapacità della gente di superare rancori ed odi. Fortunatamente molti genitori hanno compreso le nostre intenzioni e il numero delle richieste è stato tre volte più grande dei posti disponibili. In sette anni il numero degli alunni della scuola a Sarajevo è salito dieci volte. Visto il funzionamento della scuola interetnica e interreligiosa di Sarajevo, molti genitori di Zenica e di Tuzla si sono rivolti all’Arcidiocesi chiedendo di aprire le stesse scuole anche nelle loro città. L’abbiamo fatto nel 1995, lasciandoci interpellare dal bisogno della gente e facendo crescere il numero delle scuole fino a tredici, con 3478 iscritti nell’anno scolastico tuttora in corso.

Perché “Scuole per l’Europa”

Sin dall’inizio abbiamo chiamato queste scuole “Scuole per l’Europa” per due motivi fondamentali. Il primo motivo era di ricordare soprattutto ai nostri alunni, ma anche agli altri nostri concittadini, a quale contesto appartiene e in quale direzione deve tendere il nostro Paese. La gente in BeE ha bisogno di tutto: sicurezza, casa, lavoro… Però, prima e più di tutto, ha bisogno di speranza. Ho sentito molti padri di famiglia lamentarsi dello scoraggiante fatto che il loro nonno ha dovuto ricostruirsi la casa distrutta nella prima guerra mondiale. Il loro padre quella distrutta nella seconda guerra mondiale. Essi avrebbero anche il coraggio di ricostruire quella distrutta in quest’ultima guerra, ma con la garanzia che i loro figli non saranno costretti a subire un’altra guerra. Chi e in che modo può dare una tale garanzia che li incoraggi a rincominciare ancora una volta? L’unico linguaggio a cui questa gente crede ancora è l’esempio della Unione Europea. La gente è convinta che quella parte del nostro continente abbia trovato il modo per vivere bene, in cinquant’anni, senza guerre. Nutrire la speranza che il nostro Paese nel futuro potrà far parte dell’Unione Europea, significa aiutare a comprendere che sarebbe un errore arrendersi ed andare via.

D’altra parte è chiaro che la mentalità pacifica non viene data dal di fuori, o dall’associazione cui si appartiene. Il vero desiderio della pace nasce e viene coltivato nel cuore umano. Per far parte di un’Europa senza conflitti ci vuole un’educazione ai valori della pace. Il programma scolastico delle nostre scuole, oltre alle materie prescritte dal ministero per la educazione, offre alcune particolarità in cui si rispecchia la tendenza di queste scuole. La lingua inglese viene insegnata dalla prima classe. Dalla quinta gli alunni possono scegliere tra il tedesco e il francese come seconda lingua straniera. Già nella scuola elementare vengono insegnate materie quali la storia delle grandi religioni, l’educazione alla democrazia, l’ecologia, l’informatica. Nel liceo si insegnano il latino ed il greco con l’intenzione di far conoscere ai nostri alunni il patrimonio da cui è sorta l’Europa. L’insegnamento della religione viene offerto a tutti. Gli alunni, con i loro genitori, sono liberi di decidere se vogliono frequentare questa materia o no. Se la scelgono all’inizio dell’anno scolastico, sono obbligati a frequentarla per tutto l’anno. La stragrande maggioranza degli alunni decide di frequentare le lezioni di religione, che è equiparata a tutte le altre materie. Per molti appare come una curiosità il fatto che nelle nostre scuole non sia permesso che un bambino ortodosso o musulmano scelga di frequentare le lezioni di religione cattolica o viceversa. Per questo abbiamo le nostre buone e fondate ragioni. Tali materie, aggiunte al programma ufficiale, mirano a far nascere il desiderio nei cuori dei nostri alunni di essere i cittadini dell’Europa, dopo aver “assaggiato” le proprie radici e conosciuto il proprio patrimonio. Il cittadino europeo, oggi e in futuro, dovrà possedere innanzitutto la capacità di dialogare.

La conoscenza delle lingue moderne e la capacità di servirsi dei moderni mezzi di comunicazione lo rendono capace di comunicare. Però queste capacità non lo rendono ancora disponibile a dialogare e ad impegnarsi per la pace. Solo l’educazione del cuore umano e una personalità formata integralmente, attraverso la coraggiosa proposta dei veri valori, prepara e rende disponibili al dialogo. Il programma di queste scuole non consiste solo nella conoscenza dei principi democratici, dei diritti umani e del patrimonio religioso, ma anche nel tentativo di proporli come stile di vita. L’impegno appassionato e l’esempio degli insegnanti costituiscono la condizione necessaria iniziale per la creazione di un’atmosfera in cui la crescita umana possa essere accolta e vissuta come qualcosa di positivo. E’ necessario correggere la pericolosa mentalità secondo cui bontà significa debolezza e incapacità. L’audace proposta della dignità e valore dell’uomo, tratto dal suo senso in nato e dalle sue profonde aspirazioni spirituali, vuol cercare di riempire le lacune esistenti in un sistema educativo che risulta evidente non soltanto nel mondo ex-comunista. Il nostro tentativo vuole essere solo un segno di opposizione ad una prassi, sempre più diffusa, che le scuole devono essere esclusivamente luoghi di apprendimento del sapere, ma in nessun caso luoghi dell’educazione ai valori.

Il secondo motivo per cui abbiamo chiamato queste scuole “Scuole per l’Europa” è nella nostra profonda convinzione che le autorità politiche europee non hanno riconosciuto e adeguatamente reagito al male da cui è stata colta la BeE durante l’ultima guerra. La Chiesa non può e non deve fare politica, intesa come lotta per il potere. Però essa può e deve servire al bene degli uomini promuovendo, tra gli altri valori, soprattutto quello della pace. Questo presuppone la capacità di leggere e di spiegare i segni dei tempi. L’orribile guerra in BeE, a mio avviso, mirava ad inviare un preciso messaggio all’Europa che tende ad integrare tutte le sue parti. Il tentativo di dimostrare che la convivenza tra i diversi, specialmente tra il mondo islamico e quello occidentale, che in BeE da secoli in un certo modo funzionava, sia difficile da realizzare, getta ombra sul futuro della pace nel nostro continente, che diviene interetnico ed interreligioso ogni giorno di più. Personalmente sostenevo anche prima dell’11 settembre che il futuro della pace nel mondo dipenderà, prima di tutto, dalla capacità e dalla disponibilità di trovare una modalità di convivenza pacifica tra il mondo islamico e quello occidentale.

L’esempio del nostro Paese, in cui da secoli convivono le fondamentali componenti del continente europeo – vale a dire i rappresentanti dei suoi due polmoni (occidentale e orientale) – e in più quello del mondo islamico, era e deve essere anche in futuro un esempio della capacità degli uomini di favorire il più grande bene, che è quello della pace. Purtroppo, gli avvenimenti del passato danno ragione a chi sostiene che il nostro Paese è un esempio di convivenza, ma non di una convivenza pacifica. Per questo, a mio avviso, ci sono almeno due ragioni fondamentali. Il nostro vivere insieme è carico di innumerevoli e gravi ingiustizie. Si dimentica sempre che la giustizia, come ideale a cui tendere in tutte le circostanze, era e rimane la condizione indispensabile per ogni forma di vita degli uomini. E’ un vero peccato che anche in questi giorni nel nostro Paese vengano imposte soluzioni politiche profondamente ingiuste, che rendono la convivenza ancora più dura. A causa di questo continua ad essere difficile per la gente credere in una convivenza accettata e vissuta come valore. Nel contesto di un’ingiustizia fatta in nome della democrazia, ogni valore diventa una illusione. Rimane un vero mistero con quale irresponsabilità stiano strappando il tessuto multietnico che la vita della gente ha tessuto lungo i secoli. E lo fanno coloro che sono stati inviati da noi per soccorrerci sulla strada della democrazia. Costruire magari un piccolo mosaico che dimostri che la convivenza tra i diversi, anche in presenza di ferite profonde, sia possibile, mira ad opporsi alla mentalità che, in nome del grande ordine mondiale, non tiene conto del piccolo uomo. Promuovere la convivenza pacifica in BeE significa anche dare il nostro contributo affinché la fiamma della guerra in Europa non parta più da Sarajevo.

Tra successi e ostacoli

Il solo fatto che un progetto del genere, fisicamente e materialmente, sia stato realizzato in mezzo alla guerra, in una città ermeticamente chiusa, è motivo di incoraggiamento. E’ stato quasi un miracolo far entrare l’arredo scolastico e il materiale didattico a Sarajevo nel periodo in cui anche le potenti istituzioni internazionali facevano fatica a distribuire gli aiuti umanitari. I soldati francesi dell’ONU trattarono con i Serbi per ben quattro mesi. Il colonnello, che non si arrendeva davanti alle tantissime difficoltà, nel momento in cui volevamo ringraziarlo regalandogli un rosario, perché altro non avevamo, trasse dalla tasca della sua divisa il suo, aggiungendo: “Lo prego ogni giorno!”. Non mancarono problemi, partendo dalle prime difficoltà e paure, dal pericolo a cui erano esposti prima di tutto gli operai, che sotto le bombe ed i tiri dei cecchini rimettevano a posto il tetto e le aule dell’edificio scolastico, e poi gli alunni nelle classi. Non mancavano neppure gli uomini di buona volontà che, motivati dalla loro fede in Dio – come quell’ufficiale francese – e dall’amore per gli uomini, erano disposti ad aiutarci. Molte persone e istituzioni, impegnate per la pace, ci hanno appoggiato ed incoraggiato. Le Chiese, in modo particolare quella italiana e tedesca, hanno contribuito a finanziare il progetto che non costa poco in un Paese del tutto distrutto. Senza questo aiuto la Chiesa in BeE non sarebbe in grado di mettere in pratica le sue parole sulla dignità dell’uomo, sui suoi diritti, sulla necessità del dialogo e della convivenza pacifica. Per questo siamo profondamente grati!

Più di tutti ci hanno incoraggiato gli stessi alunni che hanno capito il progetto educativo e condiviso gli obbiettivi verso cui dirigersi. In tutti questi anni, nonostante tensioni di ogni tipo, tra gli alunni delle nostre scuole non è successo un solo incidente motivato dalla loro diversità etnica o religiosa. Anzi, sembrava che questo fosse diventato un fatto che li sfidava a sentirsi ancora più vicini ed uniti. Essi sono la risposta vivente a tutti coloro che, dopo le esperienze personali oscurate dai fatti storici, dubitano che la convivenza pacifica in BeE sia ancora possibile. La pace e la convivenza pacifica tra i diversi è possibile solo a certe condizioni. La pace e il riconoscimento reciproco sono un valore e un bene prezioso. Il bene non cresce da solo su questa terra, ha bisogno di essere coltivato fino al punto in cui diventa una scelta di vita, quasi un credo. Ci vuole coraggio a chiedere ai giovani cresciuti nelle cantine sotto le bombe, che hanno distrutto tutto, di badare alle pareti e ai banchi delle classi. Ma ci vuole ancora più coraggio a proporre il rispetto reciproco e l’amore in una società in cui da anni si parla solo di nemici.
Qui le parole contano poco. Oltre la spiegazione ben argomentata ci vuole la testimonianza. Gli alunni delle nostre scuole potevano notare che la regola principale che obbliga gli insegnanti è l’imparzialità. Se venisse provato che un nostro insegnante abbia fatto torto a un alunno a causa della sua appartenenza nazionale o religiosa, non può rimanere a lavorare da noi. Non è meno impegnativo convincere gli adulti che sono stati feriti nel profondo dei loro animi, che il perdono sia possibile. Il nostro primo impegno era ed è spiegare ai nostri insegnanti come e perché le scuole possono e devono diventare i laboratori della convivenza attraverso la scelta personale di lavorare per la pace. Per aiutarli a capire ed accettare il perché di questo approccio vengono organizzati seminari, incontri e ritiri per gli insegnanti. Motivarli non è per niente facile, anche a causa delle umilianti condizioni di vita. Fanno fatica a lavorare con entusiasmo coloro che sono messi a confronto con la miseria di ogni giorno. Specialmente se sono stati formati in un sistema in cui tutto veniva misurato con lo stipendio. Ciò nonostante, ogni tanto le iniziative degli alunni stessi fanno capire che i loro insegnanti riescono a dare quel di più su cui insistiamo tanto. Qualche settimana fa, un gruppo di quindicenni rappresentanti delle varie classi, è venuto da me per chiedere l’approvazione e il sostegno ad una loro iniziativa: istituire, nella scuola a Sarajevo, un consultorio per i genitori. Il consultorio, composto da esperti, avrebbe il compito di aiutare i genitori a diventare collaboratori delle iniziative promosse dalla scuola a favore di una educazione più efficace dei loro figli. I genitori vorrebbero che i figli acquisissero una solida preparazione, magari anche una buona educazione, però senza sacrifici e senza disciplina. Non di rado sono proprio loro il più grande ostacolo per un fruttuoso processo educativo.

La misura della validità e della qualità di qualsiasi idea o progetto in BeE è costituita dagli ostacoli che deve superare. Valutate secondo questo principio le nostre scuole avrebbero una buona stima. Portare avanti un nuovo progetto che non costa poco e non retribuisce subito, in una realtà in cui manca il necessario per la vita e per la pastorale ordinaria, significa affrontare il rischio della contestazione. Specialmente in un contesto sociale in cui le attività della Chiesa da decenni erano ridotte allo stretto campo pastorale. Nella arcidiocesi di Vrhbosna-SaraJevo durante la guerra sono stati gravemente danneggiati 0 distrutti 692 edifici ecclesiastici. La reazione spontanea di molti era a favore della restaurazione delle chiese e delle case parrocchiali al posto della restaurazione e costruzione delle scuole in cui vengono accettati anche i figli del propri “nemici”, 0 addirittura coloro che domani saranno pronti a ucciderci di nuovo. Diviene allora necessario porsi la domanda a che cosa serva riparare i danni della guerra se non si tentasse almeno di cambiare la mentalità di coloro che fanno la guerra.

Dire cosa è positivo o meno in BeE oggi spetta esclusivamente ai rappresentanti della comunità internazionale. Promuovere qualsiasi cosa che non viene ben vista da loro significa raddoppiare gli ostacoli che devono essere affrontati. Non c’è più alcun dubbio che questo nostro progetto non gode della loro simpatia. Tra l’altro lo conferma il solo fatto che questo progetto, da parte loro, non è mai stato appoggiato né materialmente né moralmente. Non è facile capire la complessità dei loro motivi. Pare che uno di essi sia il fatto che nelle nostre scuole cerchiamo di coltivare l’identità etnica, culturale e religiosa di ogni alunno. Per quanto si può capire, sembra che la maggioranza dei rappresentanti della comunità internazionale, che decidono su tutto in questo Paese, sia del parere che proprio le differenze tra gli uomini siano la ragione della intolleranza e delle guerre. Dopo quattro tentativi falliti (Turchi, Austriaci, Serbi e comunisti) si riprova ancora a promuovere un apparato amministrativo che nega o cancella le diversità a cui la stragrande maggioranza della gente tiene. Il programma scolastico che viene elaborato e i libri di testo che si vorrebbero imporre a tutti in BeE devono servire a questo progetto.

Invece noi, avendo imparato dalla tragica storia del nostro Paese, siamo convinti che la convivenza pacifica sia possibile solo se viene alimentata dalla disponibilità al dialogo sincero, che non nega e sopprime le diversità. Il dialogo è sincero e possibile tra i diversi se e quando l’altro viene accettato e rispettato per quello che è. Se colto dalla paura per ciò che è, cioè per la sua identità etnica, culturale, religiosa…, l’uomo è incapace di percorrere la strada che lo porta dall’intolleranza alla tolleranza e dalla tolleranza all’amore tra gli uomini. Parlare dell’amore ed insegnare l’amore in un Paese distrutto dall’odio suona come un’ingenuità. Una storia per i bambini, sostengono molti. Questa strada non è né facile né breve, però è l’unica scelta per quanti credono in un mondo migliore, in cui i bambini di oggi diventeranno adulti. Non è possibile vivere a lungo i sentimenti della pura ed arida tolleranza.
Questo sentimento con il tempo o matura e si trasforma nell’amore tra gli uomini, o scivola nel terreno dell’intolleranza. In questo contesto le differenze non sono il vero motivo, ma risultano sempre il pretesto per l’intolleranza, motivata da altri scopi.

Conclusione

Aperte per pura necessità di sopravvivenza del “piccolo gregge” della Chiesa di Sarajevo, le “Scuole per l’Europa” sono divenute un segno d’incoraggiamento e di speranza per molti, in Bosnia ed Erzegovina. Attraverso queste scuole la Chiesa mette in pratica la convinzione che la sua missione in questo Paese non si esaurisce nelle semplice pastorale. Essa è chiamata a porre, e a proporre a tutti, i segni concreti dell’amore di Cristo che redime e riconcilia. L’educazione ai valori dimenticati rappresenta il sommo grado di solidarietà con gli uomini di oggi. Diventando una prova vissuta che neppure la spaventosa esplosione dell’odio riesce ad inquinare tutte le sorgenti dell’umano, questo piccolo progetto testimonia che non vi possono essere situazioni a cui dobbiamo arrenderci, perché niente ci dispensa dall’obbligo di impegnarci per la pace. Anzi!